Wednesday, November 04, 2009

Livingstone sale in soffitta

Ecco una giornata di pioggia. Lily salì verso i fili dell'immensa rete, insieme alla sua noia. Anche i fantasmi si stufano della pioggia e Lily cercava una storia che la rapisse e la portasse lontano da quel ticchettio fastidioso che anche sotto il cielo d'asfalto riusciva a nebulizzare l'aria del suo mondo come fosse una stanza da bagno dopo una doccia calda, senza il beneficio del calore. Per questo, Lily cominciò subito a leggere, perché le storie, si sa, riscaldano più di un caminetto acceso.

Le scale, che scendevano così ripide dalla soffitta da sembrare quasi il salto di una cascata amazzonica, arrivavano sull’ultimo piano abitato della grande casa dove stava, da sola, la nonna di Livingstone. Livingstone era un bambino gracile e molto curioso, aveva occhi scuri e vivacissimi e portava un paio di occhiali sempre abbassati sul naso, come fanno i grandi quando smettono di leggere, alzando la testa dal giornale, per guardare in faccia qualcuno che è appena entrato nella stanza. Livingstone amava osservare con attenzione tutto quello che gli accadeva intorno, anche quando quello che accadeva era fuori dalla finestra, a scuola, durante l’orario delle lezioni. Nonostante le frequenti distrazioni in classe, Livingstone aveva ottimi voti in tutte le materie, era rapidissimo nel fare i compiti e sembrava che avesse sempre qualcosa di più importante da fare.
E in effetti, qualcosa c’era che per Livingstone valeva quasi più di tutto. Più di un gelato al pistacchio da mangiare anche con la punta del naso. Più di un sasso che rimbalza ben quatto volte a pelo d’acqua sul laghetto nel parco. Quasi quanto giocare a palla con Patch, il grasso beagle della nonna. Precisamente quanto il bacio del papà, al ritorno dai suoi viaggi di lavoro. C’era un grande sogno che Livingstone teneva nel cuore e che avrebbe voluto raggiungere da grande, quello di diventare un esploratore e guardare le mummie in faccia senza avere paura; ecco che allora non sarebbe stato più un sogno, ma tutta la sua vita. Per questo, prima o poi, avrebbe dovuto trovare almeno il coraggio di salire in soffitta nonostante i divieti della nonna. La nonna diceva a Livingstone che lassù non ci doveva salire perché non c’era niente, che la soffitta era una stanza vuota e che c’era solo un gran freddo in inverno e un gran caldo in estate. Livingstone, però, non ci credeva, perché non esiste posto al mondo dove non c’è davvero niente. Anche nei deserti ci sono sabbia, sassi e scorpioni, oppure tante crepe sulla terra dura, che sembrano le rughe di una faccia che ha visto passare il cielo sulla sua testa per millenni. Poi, una volta la nonna si era tradita, aveva alzato la voce impaurita dicendo che nessuno ci saliva da prima che lei nascesse e che se lassù c’era qualcosa era qualcosa di molto cattivo, forse una strega o un mago aveva fatto della soffitta il luogo dei suoi esperimenti magici e che se lui, Livingstone, ci fosse salito e avesse aperto la porta non sarebbe più sceso sulle sue gambe, ma, forse, sulle sue zampe, se il maleficio non l’avesse addirittura imprigionato in quella stanza per sempre. Ora, Livingstone, da buon esploratore, a questa cosa ci pensava molto spesso. Quella della nonna non era stata una buona strategia, le sue parole avevano aperto uno spiraglio alla curiosità di un bambino che non aspettava altro. Un gelido pomeriggio invernale in cui dal cielo pioveva ghiaccio fine, la nonna, sotterrati naso e bocca sotto la sciarpa di lana lavorata a mano che le bloccava la posizione del collo più di quanto facevano gli anni sulle sue ossa, era dovuta uscire per una commissione, tutta incartata in un cappotto pesante, come fosse nel rigido contenitore di un pacco da spedire lontano.
Livingstone uscì poco dopo di lei sul pianerottolo da cui partivano le scale per la soffitta. Fatta la prima rampa, la luce cominciò a scarseggiare, la piccola finestra che restava alle spalle di chi saliva non poteva illuminare gli scalini più di tanto. All’improvviso, sull’intonaco grigio del muro apparve la coda di un drago, sinuosa e verdognola, con piccole e rade lance più scure che non promettevano niente di buono. Livingstone se ne accorse giusto in tempo, indietreggiò all’improvviso e cadde all’indietro, finendo seduto sul sedere, con i mocassini che gli saltavano via come se fossero gli unici a voler ancora salire le scale; fu una fortuna che Patch lo stesse seguendo, perché gli fece da cuscino per la testa e Livingstone non dovette giustificare nessun bernoccolo viola quando la nonna rientrò a casa. Quella sera l’esploratore si sentiva sconfitto sul nascere, forse, si diceva Livingstone, il suo destino sarebbe stato diverso e quello che era un sogno sarebbe rimasto tale per sempre; da grande avrebbe solo cercato perdite d’acqua indossando una comoda tuta da idraulico, oppure avrebbe appeso alla sedia la sua giacca tutte le mattine, prima di sedersi ad incollare francobolli e a distribuire timbri sulle buste di milioni di lettere, fino a diventare inutile, quando il mondo, in lungo e in largo, si sarebbe scritto solo per posta elettronica. Ma qualche mese dopo, la curiosità vinse sul timore dell’ignoto e l’esploratore ritrovò un po’ di coraggio; un giorno di primavera, non appena, dalla finestra che dava sulla strada, vide la nonna arrivare sul marciapiede opposto, con il passo un po’ affrettato dal vento che le spettinava i capelli fino a farli sembrare un fiocco di cotone, Livingstone uscì sul pianerottolo e si tolse i mocassini. Salì in silenzio le scale di legno, trattenendo anche il respiro e gonfiando le guance come fa un trombettista, perché il drago c’era sempre lì sul muro, ma al passaggio di Livingstone non si svegliò e mantenne la mostruosa coda immobile. Quando, però, Livingstone raggiunse l’ultimo scalino che portava alla porta della soffitta, comparve un serpente nero allungato su tutta l’asse di legno e le gambe dell’esploratore persero coraggio e acquistarono un’incredibile velocità per tornare indietro, saltando la pingue mole di Patch, che lo aspettava sul pianerottolo, come fosse un ostacolo sulla pista di un gara di atletica.
Dieci minuti dopo, Livingstone aveva calzato di nuovo i suoi mocassini e piangeva calde lacrime immaginando che da allora in poi avrebbe visto la faccia delle mummie soltanto da dietro il vetro di una teca nel Museo Egizio di Torino, o a Il Cairo in mezzo a uno sciame di turisti sgomitanti. Quella sera saltò la cena, la nonna portò un po’ di latte e biscotti in camera sua, ma Livingstone bevve solo il latte, fino all’ultima goccia. Anche dei biscotti non rimase neppure una briciola, ma fu Patch ad ingoiarli tutti.
Era l’ultimo giorno di scuola, negli zaini c’erano soltanto l’astuccio e il diario per annotare i compiti per le vacanze. Nel cortile dove si aprivano le grandi portefinestre delle classi, i compagni di Livingstone si rincorsero accaldati per gran parte della mattinata, mentre il piccolo esploratore sconfitto rimase a testa bassa, fissava i suoi mocassini con gli occhiali che gli spuntavano dal taschino del grembiule blu, immaginandosi nel ruolo di bidello che gli spettava come unica alternativa per il suo futuro; chissà se avrebbe saputo mantenere così lucide le mattonelle bianche e nere che disegnavano come una scacchiera il pavimento del corridoio, questo era ciò che Livingstone si stava chiedendo mentre svogliatamente si dirigeva verso la porta, ultimo ad uscire tra i compagni che l’avevano superato correndo veloci come se avessero le ali ai piedi. I suoi mocassini sembravano, invece, trascinarsi a fatica, come se della colla gli impedisse di avanzare, senza staccare i passi dal suolo, come faceva la nonna quando era molto stanca. Che cosa avrebbe fatto adesso di tutto quel tempo che gli si era liberato all’improvviso, si chiedeva ancora Livingstone, senza più il coraggio neppure di tentare di raggiungere la porta della soffitta; anche Patch non avrebbe potuto aiutarlo a far passare i lunghi giorni delle vacanze estive, quel beagle era troppo pigro per seguirlo in lunghe passeggiate.
Ma ecco che un giorno, finiti tutti i compiti, dopo aver già mangiato un gelato al pistacchio sporcandosi la punta del naso e aver fatto rimbalzare un sasso ben quatto volte a pelo dell’acqua sul laghetto nel parco, dopo anche aver già giocato a palla con Patch, Livingstone cominciò a ripensare al suo sogno, poiché il papà era ancora in viaggio di lavoro e i suoi baci erano lontani quanto lui.
La nonna era uscita in una nuvola profumata fatta di seta color pastello, a riempire qualche ora della leggerezza estiva che la inebriava da qualche giorno, facendole guadagnare un’inattesa nuova giovinezza; sarebbe stata lontana da casa a lungo, finché ci sarebbe stato sole in cielo, senza pensieri, perché sapeva che Livingstone quel giorno non sarebbe rimasto da solo più di tanto e avrebbe avuto la sua bella sorpresa d’inizio vacanze.
La nonna era fuori da poco, quando il piccolo esploratore si tolse ancora i mocassini, lasciandoli sul pianerottolo da cui partivano le scale per la soffitta, a buona guardia di Patch che non fece un passo in più per seguirlo.
Livingstone aveva pensato molto al drago e al serpente che lo avrebbero aspettato su per le scale, e si era detto, per trovare il coraggio di affrontarli, che sarebbe bastato immaginare che fossero altro da quello che sembravano. Dunque, Livingstone cominciò a salire e, arrivato all’inizio della seconda rampa di scale, provò a convincersi che quello che intravedeva sul muro non poteva essere davvero un drago. Sì, forse quella era solo una macchia verde di muffa! E la muffa, si sa, non fa male a nessuno. Poi, quando giunse sull’ultimo scalino, superò con un passo più ampio quel serpente nero che ora gli sembrava tanto una vecchia crepa del legno annerita dalla polvere e non temette neppure per un momento che quella crepa alzasse la testa per mordergli un tallone, perché le crepe, si sa, non mordono nessuno. Infine raggiunse la porta della soffitta e si fermò solo un attimo, un po’ stordito dall’emozione dell’impresa, meravigliato dal canto che gli sembrava di sentire e dal profumo di rose che mai avrebbe pensato di trovare lassù. Non si sa se vinse la curiosità di un bambino o il coraggio di un piccolo esploratore, ma Livingstone aprì la porta. Ecco, c'era una soffitta coperta di polvere fin dalle assi del pavimento. Se qualcuno ci fosse entrato, prima di lui, avrebbe lasciato altre orme oltre a quelle che lasciarono i suoi passi, ma poiché erano molti anni che nessuno ci entrava, quando la stanza si aprì agli occhi di Livingstone, sembrò che anche la polvere della soffitta lo stesse aspettando da secoli, come i tesori dei faraoni aspettano da millenni i loro esploratori. Là dentro niente cambiava da anni, se non la luce che entrava dalla piccola finestra posta sulla parete opposta alla porta. Di giorno, quando fuori c'era il sole, i raggi che entravano muovevano un piccolo cono costretto sopra il disegno di un tappeto. C’erano boccioli di rosa in attesa di sbocciare. Piccoli uccelli dal piumaggio color indaco aspettavano il calore per frullare le ali e liberarsi della polvere in una giostra di brevi voli. Questo accadeva sotto i raggi del sole che entravano dalla finestra. Questo era il segreto della soffitta. E per questo di giorno la soffitta profumava di rose. E per questo l'aria sembrava risuonare del canto di uccelli esotici. Forse anche per questo nessuno ci entrava da anni, perché tutto quello che era chiuso nella soffitta sembrava un maleficio. Invece era un prodigio. E quando il sole tramontava e dalla finestra entrava la luce della luna, questo ancora Livingstone non poteva saperlo, i boccioli si richiudevano e i piccoli uccelli tornavano immobili, con il capo sotto l'ala. L'indaco si spegneva nel nero della notte. Le rose prendevano il colore della polvere. Ma restava la pace nell'aria, la pace di un mondo che riposa. Livingstone passò in mezzo ai voli degli uccelli, facendo attenzione a non calpestare le rose, e si avvicinò alla finestra che dava sull’orizzonte della città. Forse quella che vedeva dalla finestra, laggiù in fondo, non era una lunga ciminiera nera, ma il suo papà che si era allungato sopra i tetti della città per salutarlo, sventolando un fazzoletto che sembrava una coda di fumo. E forse si può dire che nella soffitta accadde un nuovo prodigio, quando Livingstone udì Patch abbaiare dal fondo delle scale e una voce che lo chiamava che non era quella della nonna; era una voce che usciva dal mezzo di una barba scura, mentre due occhi azzurri brillavano come il mare colpito dal sole. Livingstone aveva ancora nel cuore un grande sogno che valeva quasi più tutto, ma ora sapeva che lo avrebbe raggiunto da grande. Un sogno che valeva precisamente quanto il bacio del papà, al ritorno dai suoi viaggi di lavoro. E per trovare il bacio, adesso doveva solo richiudere la porta della soffitta e scendere le scale.


Ora Lily calò come una lacrima di gioia e tornò sul suo prato. La noia non era più con lei.

Friday, June 19, 2009

Un anno di Birra

Manca un giorno e sarà un anno che Birra vive con me :)

Albaluna

E a Lily apparve una storia che girava intorno a un filo che pareva intrecciato ad un lontano ricordo, come quando si fanno nodi ai fazzoletti o ci si lega un piccolo pezzo di spago ad un dito per non scordarsi di qualcosa. Di qualcuno. E la storia che si sciolse davanti agli occhi di Lily si raccontava così:

Era l'ora del crepuscolo. La luce e il buio si incontravano su una linea di confine che dava l’impressione d’essere un territorio più vasto; un’intersezione dove le caratteristiche non si fondono. Come nei quadri di Caravaggio. Ci sono creature che vivono solo di notte e si dicono animali notturni. Altre creature vivono, invece, solo di giorno e dormono di notte per recuperare energia vitale, chi con la testa sul cuscino, chi con il capo sotto l’ala, chi come può. Ci sono poi strani esseri della cui esistenza ci si accorge solo al crepuscolo, strani ibridi di creature diurne-notturne in cui le caratteristiche non si legano e che restano agli occhi di tutti, prevalentemente, strani esseri. Lei usciva quando il giardino di casa cominciava a coprirsi di una luce polverosa che trasformava velocemente i fiori e le cose in qualcosa dal contorno sempre meno definito, ombre tridimensionali sempre più scure.
Lei era un drappo di seta chiara che il sole ingiallisce e consuma. Lei aveva dentro di sé un'armonia che nessuno poteva ascoltare, come uno spartito senza chiave musicale. Lei era un dipinto dai mille colori in una stanza buia. Lei aveva un nome che portava come il titolo di una storia. Si chiamava Albaluna.
Albaluna era una bambina dai capelli del colore dell'alba, la pelle chiara del volto era fine e trasparente; era una bambola di carta velina, una bambola fragile con cui non gioca nessuno per la paura che possa frantumarsi al primo tocco, trasformandosi in mille coriandoli che anche un vento leggero potrebbe portare lontano. Gli occhi avevano il colore di una lacrima che riflette il cielo e il leggero strabismo era ben nascosto da ciglia bianche e folte.
La stanza dove Albaluna passava gran parte del giorno aveva una finestra che veniva aperta soltanto quando la bambina era altrove; la luce in sua presenza aveva un'origine esclusivamente artificiale e si diffondeva tenue dalle tante lampade che la nonna aveva cominciato a collezionare da quando Albaluna era stata riconosciuta fotofobica. La nonna di Albaluna aveva avuto una sorella albina che quando usciva doveva coprirsi per difendersi dalla luce del sole con grandi occhiali scuri e che l'intero paese, piuttosto piccolo in qualunque direzione lo si percorresse, aveva preso ben presto a additare come fosse un fenomeno da baraccone. Così Albaluna, che era stata affidata alla nonna fin dalla nascita per una lunga serie di sfortunati eventi, era stata cresciuta e custodita fra le mura di casa, in quelle stanze dove il sole non entrava da anni per più di mezz'ora al giorno e luce era fatta solo grazie agli interruttori.
Albaluna riceveva l’unica visita di una maestra che nel pomeriggio andava a trovarla per seguire la sua istruzione e, è facile fare il conto, la maestra era l'unica persona che Albaluna conosceva oltre alla nonna e a qualche vecchia zia. Albaluna non aveva mai visto bambini e guardandosi allo specchio si era fatta la strana idea che la razza umana cambiasse colore crescendo, che i bambini fossero piccoli frutti acerbi e che, passato il tempo necessario alla maturazione, anche lei da grande avrebbe avuto lunghi capelli castani come quelli della maestra. Nessuno si era mai preso il compito di toglierle questa convinzione, neppure la maestra, nessuno le aveva mai raccontato la realtà della faccenda, dicendole che i bambini non maturano e che la specie umana non ha un unico colore. Che i bambini, gli uomini e le donne sono tutti uguali solo in quanto bambini, uomini e donne. Che l'uguaglianza si misura sulla parità e sul rispetto dei diritti e della dignità e che il colore è solo un elemento che arricchisce la bellezza della natura. Che la luce, poi, non dovrebbe far paura a nessuno, poiché la luce è bellezza perché contiene tutti i colori del mondo. Che anche l'alba e la luna hanno un colore e una luce e che anche lei, Albaluna, aveva il suo e che per nessun motivo al mondo avrebbe dovuto sperare di cambiarlo.
Poi un giorno accadde che, all'arrivo della maestra, Albaluna vedesse qualcosa di più piccolo che la seguiva nel corridoio, mentre la donna proseguiva per andare incontro ai saluti della nonna, superando la stanza delle luci in alabastro dove lei l'aspettava. Qualcosa di più piccolo si fermò sull'entrata della stanza e guardò Albaluna dritto negli occhi e con la bocca spalancata di un pesciolino fuori dall'acqua sputò fuori una vocina bassa da paura che si alzò soltanto sull'ultima parola: «E tu chi sei, un FANTASMA?». Albaluna gli fece quasi coro «E tu chi sei?», già rispondendo a se stessa tra mille pensieri che forse quello era un adulto molto piccolo o un bambino che aveva già cambiato colore. Due pesciolini si erano incontrati fuori dall'acqua, perché acqua, lì nella stanza delle luci in alabastro, non c'era. «Mi chiamo Bruno e sono un bambino», disse lui. «Io sono Albaluna», disse lei un po' di tempo dopo. Giusto il tempo che un pesciolino impiega per imparare a parlare. Bruno se ne andò presto insieme alla maestra, che quel giorno neppure fece la sua lezione. La nonna li accompagnò alla porta e quando tornò nella stanza Albaluna pensò che fuori doveva fare un gran freddo, perché la nonna tremava. La lezione della maestra non c'era stata, o forse sì. Albaluna ora sapeva che esistevano bambini di un altro colore e che era bello guardarsi negli occhi tra bambini, perché sembra di capirsi senza dire niente. Dopo quella sera, la maestra tornò, ma sempre da sola. E Albaluna da allora pensava spesso a Bruno e gli parlava come se avesse accanto un amico invisibile, ma non immaginario. Bruno era un amico invisibile lì nelle stanze della grande casa della nonna, ma per renderlo visibile, pensò un giorno Albaluna, non si doveva poi andare troppo lontano.
Era dunque l'ora del crepuscolo e Albaluna imboccò il corridoio buio fino al portone che si apriva sul giardino. Fu la nonna ad aprirle la porta. Le ombre scese da poco sul giardino avevano aperto la finestra ai suoi profumi, Albaluna salutò le rose che il caldo della giornata aveva sgualcito e poi uscì dal cancello, che non aveva mai varcato da sola prima di allora.
«Andiamo, Bruno non deve essere troppo lontano da qui», disse Albaluna a se stessa come un’esploratrice che deve trovare il coraggio di fare il primo passo verso un luogo sconosciuto in cui però è sicura di trovare un grande tesoro. La strada verso il paese era dritta e costeggiava il bosco, quando cominciò a calare il buio Albaluna si accorse che il coraggio restava qualche passo indietro. La notte che ormai riempiva tutto quello che le stava intorno, poiché intorno tutto era nero e irriconoscibile nell'assenza di luce, la faceva procedere con cautela. E la faceva pensare. Era una notte senza luna e le stelle erano troppo lontane per illuminarle ogni mondo, esterno o interiore che fosse. Eppure, se qualcuno avesse potuto essere lì per vederla, si sarebbe accorto che Albaluna aveva una luce propria, era un'ombra più chiara sul bordo dell'asfalto e gli occhi le brillavano come se due stelle da lassù le fossero scese sul viso, tra la fronte e le guance, ai lati del naso. Da qualche parte doveva esserci la strada che percorrono le macchine, dove di notte si snodano e si annodano lunghe stelle filanti di fari soffiate dalla velocità. La strada, dove c'erano le luci colorate delle insegne dei negozi che ti chiamano a mangiare i gelati, a comprarti scarpe e abiti nuovi, a entrare nei cinema e a trovare il rumore di tazze e bicchieri nei bar. Anche la casa di Bruno doveva avere una luce che l'avrebbe chiamata ad entrare. Una luce da sbirciare dalla finestra, la luce di una famiglia che consuma la cena intorno a un tavolo mentre in un angolo brilla una tv accesa. La luce di una maestra in pantofole che legge un libro e di Bruno che gioca sul divano. Una luce che si spegne solo prima di dormire. Invece, Albaluna adesso sentiva la luce di un cuore sempre più piccolo che batteva forte, una luce debole, lontana quasi quanto le stelle. Dentro di lei scorreva, più che il sangue, la paura.
Il malessere che il buio le dava era diverso dal dolore fisico che le procurava la luce abbagliante del giorno. Era il malessere dell’ignoto. La luce dona visibilità. La luce fa conoscenza. Se ci fosse stato anche soltanto il chiarore della luna a illuminare il suo cammino, Albaluna non avrebbe perso la determinazione che sentiva quando era uscita. Ora, invece, si chiedeva «Dove sto andando», «Quanto è lontano Bruno da qui», «Quanto dovrò camminare ancora» e, infine, «Perché non sono rimasta nel mio giardino?» e «Perché non mi è bastato stare da sola con le rose?».
D’un tratto, quasi per incanto, sembrò che scendesse una stella dal cielo per arrivare davanti al naso di Albaluna. Ma non era una stella. Era una lucciola, che Albaluna cominciò a seguire quasi correndo, infine correndo e ridendo insieme al suo cuore che non batteva più di paura. E la lucciola fu la sua guida, prima verso la strada dove si rincorrevano i fari e le insegne coloravano finalmente la notte, che non era più buia, poi verso una casa che aveva l’entrata illuminata e una luce da sbirciare dalla finestra, la luce di una famiglia che consuma la cena intorno a un tavolo mentre in un angolo brilla una tv accesa. La luce di una maestra in pantofole che legge un libro e di Bruno che gioca sul divano.
C’era anche il nome della maestra nella luce bianca del campanello che Albaluna arrivò a suonare mettendosi in punta di piedi. Quando la porta si aprì, l’accolsero stupore e abbracci. E quando la luce si spense, nella camera di Bruno, si accese un soffitto di stelle fosforescenti molto più vicine di quelle che stavano fuori nel cielo. Era arrivata l’ora di dormire e di accendere la luce bellissima dei sogni di due bambini che non avrebbero smesso di giocare insieme mai più, lì sotto le stelle fosforescenti o nella stanza delle luci d’alabastro a casa di Albaluna. Non avrebbero smesso di giocare neppure ad occhi chiusi nel buio della notte.


Poi Lily calò come la luna in un pozzo e tornò invisibile. Non si sa per quanto.

Sunday, October 26, 2008

Un pallone bianco

Eccola. Finalmente Lily era di nuovo un fantasma. Trasparente quanto basta per farsi attraversare dalle cose senza dover mostrare necessariamente sofferenza, mantenendo delle cose o dei fatti un inconsistente riflesso fluttuante, per un tempo breve. Non essere toccata era un esercizio di negazione che valeva la sopravvivenza. Era l'inevitabile precarietà del suo stato di fantasma. Pochi credono ai fantasmi e molti, invece, preferiscono credere di non averne intorno, per non dover riconoscere di non saper affrontare le paure. Del resto, fin da piccoli ci insegnano a dormire tranquilli, senza pensare di avere mostri sotto il letto. Lily adesso, allo stesso modo, cercava l'unico contatto possibile con quei fili della rete, lassù sopra la sua testa, piuttosto che seguire, nella sua testa, i fili dei suoi pensieri. I fili dei suoi pensieri sbandavano nel vuoto come qualcosa che non si annoda e non si collega. Se questi fili avessero toccato terra, invece di restare per aria, avrebbero trovato terra e sarebbe cresciuto un grande albero sotto cui davvero riposare come fa un bambino che ha sconfitto tutti i suoi mostri, che non ha più niente da temere. Ma i fantasmi non trovano riposo.

Forse non c'era niente, lì dove sembrava che ci fosse qualcosa che si muoveva. Forse c'era solo un'ombra ingigantita dalla luce della luna; già, colpa della luna, che era così grande in cielo da sembrare un pallone bianco sospeso nell'infinito, solleticata dalle punte dei cipressi soltanto per un gioco della prospettiva. Forse c'era un bambino sperduto, che neppure Peter Pan aveva ritrovato. O forse era una musica che non trovava il suo tempo. Era una danza paralizzata su un palco troppo piccolo. Era l'aria tra le foglie di un albero reciso prima che potesse toccare il cielo. Fatto sta, che non sapendo cos'era, che storia aveva e avrebbe avuto, forse sarebbe stato meglio guardare alle proprie spalle e dire che lì davanti non c'era niente. O forse, avanzando di qualche passo, si sarebbe potuto anche prendere per mano quel bambino e danzare per tutto il mondo, seguendo quella musica che scioglie le sue note come se non ci fosse altra musica possibile. Eliminare il dubbio dell'esistenza aprendo gli occhi, smettendo di negare e negarsi la vita. Perché si vive una volta sola e il tempo passa non solo ovviamente, ma intimamente dentro di te. E non è vero che si cambia, si resta gli stessi, dandosi altre occasioni di vita. Basta avvicinarsi, allungare la mano e conoscere toccando come fanno i bambini e i ciechi. Un gesto delicato, che abbia l'unica cura di non ferire e di non ferirsi.

Lily calò al suolo, ancora legata al filo della storia che aveva appena letto sulla tela del Ragno. I suoi pensieri ancora sbrezzavano nel vuoto, ma parevano aver trovato una direzione soffiata dal vento. Come un pallone bianco che in cielo si muove non per caso. Come un pallone bianco che forse è la luna. Un pallone bianco che spicca luminoso nella notte, di cui proprio non si può negare l'esistenza.

Tuesday, October 14, 2008

Una cena con le solite facce


Il cielo cambia spesso aspetto di questa stagione nel mondo sopra il cielo di asfalto. La precarietà è naturale, non ce ne stupiamo. Ed è come se, nonostante gli sforzi umani a comporre un ordine sociale artificioso e infine artificiale , la natura si riappropriasse del proprio sviluppo caotico anche in quello che non le appartiene. L'ordine si sfalda nella precarietà e nel precariato, perdendo la sicurezza quotidiana dei rapporti di qualsiasi genere. Ed è quasi assurdo pensare che qualcosa che si possa dire 'indeterminato' dia sicurezza. E infatti è così, ti senti sempre un calcio attaccato al sedere. Ed è ancor più strano, per questo, poter dire che quei compagni di liceo non sono cambiati. E invece si può proprio dire, almeno per quelli che erano lì alla cena venerdì scorso. E Michele(McCain), a cui pochi giorni dopo è nata una bambina, ha detto che è come se ci fossimo trovati dopo qualche mese di vacanza, alla riapertura della scuola, da subito senza freni e senza imbarazzo a raccontarci cosa avevamo combinato.
E Lily stavolta le storie le ha avute e le ha ascoltate lontano dalla rete. E le storie sapevano di Cina, di televisori spenti e due ore di sportello, di figli che leggono libri e padri che vorrebbero essere falegnami ogni volta che entrano in ufficio, di battaglie partigiane da raccontare ai propri studenti come a teatro, di figlie che sbucano fuori tra quindici giorni (luna permettendo), di sorelle che si sposano vestite di bianco e vanno a vivere quasi in Messico, di auto aziendali che si sfasciano andando/tornando a/da Milano, di Mazzo si fa così la chiocciola @, di madri che insegnano alle figlie a salire sulla sedia per essere autosufficienti e prendere da sole le cose che stanno in alto, di Roma e scegliere di viverci perché sì, di una bambina maschiaccio con dei riccioli d'oro stupendi, di ogni tanto vedo qualcuno in tabaccheria. C'ero anch'io e faccio la bibliotecaria perché ho una casa e una gatta nuova. Non dipingo più perché non ci si campa. Disegno un po' e scrivo. Anche su questo blog. Siamo qua e ci resisteremo, perché non siamo cambiati.
E Lily, per una sera, non è stata più un fantasma.

Sunday, July 06, 2008

La cornacchia del gigante

Ecco, anche sotto il cielo d'asfalto c'era l'estate. Anche il fantasma di Lily poteva accorgersene perché l'aria che attraversava era meno densa, non c'era traccia di umidità, e il suo tepore sembrava accarezzarla fino a darle la sensazione che il sangue le scorresse ancora nelle vene. Salì leggera come fosse un palloncino accompagnato dalle farfalle e raggiunse un filo dorato che luccicava come il grano sotto il sole. Chissà che storia poteva raccontarle un filo così bello, avrebbe potuto pensare Lily. Ma i fantasmi non pensano, i fantasmi ricordano soltanto.

Lungo la strada che portava alla città c'era un campo di grano di cui non si vedeva la fine e sembrava quasi che semplicemente, ad un certo punto, diventasse cielo e risalisse a contornare le nuvole, come un'onda azzurra e anomala. Il gatto scovava i topi nel grano, girando per tutto quel campo, e così passava la giornata. Qualche cornacchia temeraria, che se ne infischiava di quella faccia da pirla dello spaventapasseri, talvolta pagava l'ardire tra le zampe del gatto. E il gatto era ben contento che non ci fossero solo i topi. Perché i topi lo annoiavano. I piccoli topi grigi di campagna, che proprio così grigi avrebbero potuto prendere la metropolitana ogni mattina, ventiquattrore in pugno, per raggiungere una stanza dove la luce arrivava soltanto dal neon. 'Ché sole, pioggia, azzurro terso, nubi bianche o scure come il piombo non si sarebbero mai visti da quei vetri sotto il soffitto, sigillati di stucco e zozzerie, sabbiati di fumo, polvere e sudore. E il gatto, per uccidere non solo la sua noia, zampava la fine dei topi. C'era poi quella cornacchia, quella che gracchiava più di tutte, che sembrava sputare in faccia il suo grido al mondo, al grano e anche al gatto. Era nera come lui, lucide le piume sotto il sole, astuta o fortunata che fosse, quella cornacchia gli sfuggiva sempre e gridava andandosene che pareva spargere derisione su tutto il campo, fin dove il campo, a un certo punto, sembrava quasi che semplicemente diventasse cielo e risalisse a contornare le nuvole come un'onda azzurra e anomala. Un giorno, in cui il grano pareva aver preso la forma di tanti enormi filtri di sigarette fumate da un gigante, il gatto, con la vista lunga e scoperta dal grano che non c'era più, vide arrivare la cornacchia da lontano e le andò incontro, più spavaldo di lei. Ma dov'era il Gigante? Il suo passaggio nel campo era chiaro al gatto, per la forma che aveva preso il grano e per la comparsa all'orizzonte della cornacchia che gracchiava così forte tanto da sembrare vicina quando era ancora lontana. Sì, perché quella era la cornacchia del Gigante e per questo aveva l'ardire di strillare tanto la derisione. L'esistenza del gigante era nota al gatto, gli era stata raccontanta in punto di morte da un topo grigio che lui aveva zampato e gli era stata lanciata sul muso con l'ultimo respiro, come una maledizione che gli sarebbe piovuta addosso prima o poi, perché i topi grigi delegano sempre la vendetta. E da allora, quando il gatto vedeva la cornacchia temeva l'arrivo del Gigante come il sopraggiungere della fine dei suoi giorni. E se quel giorno stava andando incontro alla cornacchia tanto spavaldo, era perché non voleva che la morte gli si annunciasse, ma che gli piovesse addosso come un temporale improvviso, a ciel sereno. Il gatto non era come sono invece i topi grigi, che mettono la propria morte, come la propria vita, nelle mani di qualcun altro più grosso di loro. E quello che gli piaceva, al gatto, era che il gigante avrebbe sotterrato con lui, nella sua orma, anche i piccoli topi grigi che correvano sempre per il campo come se avessero qualcosa di importante da fare in una parte della città dove non arriva la metropolitana. E non avessero tempo. Anzi, come se il tempo fosse già finito. Come se fosse già arrivato il gigante.

Le farfalle sparirono d'un tratto intorno al palloncino. Lily aveva letto un'altra storia della rete infinita che occupava il suo cielo come una nube sfrangiata dall'alta pressione del clima estivo. Ora Lily era solo un fantasma, con i suoi ricordi.

Saturday, June 21, 2008

Welcome Micia Rossa!



Oggi arriva la Micia Rossa a casa della Bri'! :)

Sì, da Sabato abita con me una micia che si chiama Birra... :)

Friday, June 13, 2008

Per la mia amiga Ely

Tu sai perché.
Tu sai chi c'è.
Sei la mia amiga.
Sei la mia più grande amiga.
Qua, per te, da oggi c'è Bufalo Bill.

:) Bri' (solo per te Giannino)