Wednesday, November 30, 2005

Parole come acqua

Piove da giorni. Piove sul bagnato. Fiumi di acqua per strada.
Il rumore della pioggia copre le parole; facile non sentirle o far finta di non averle sentite.
Facile anche far finta di aver detto altro. Facile addurre incomprensione.
Però. Le parole sono importanti. I fatti non dovrebbero arrivare come un temporale spinto dalla Tramontana. I fatti dovrebbero essere preceduti da una discussione. Altrimenti è prevaricazione.


Ci sono anche fiumi di parole.
Sono confidenze, quando va bene.
Nelle auto parcheggiate davanti a casa alla fine di una serata fra troppa gente. E le parole si attaccano ai vetri come colla. E i vetri sudano. Finché non si abbassa il finestrino.
E gli occhi si chiudono, piccoli come le ore.
Allora, le parole escono con l'aria che entra e torna il silenzio.
Quello che è stato detto ora si respira. E fa parte di noi.
E avremo sempre più cose da dirci.

Sono anche sproloqui i fiumi di parole. Non hanno orario. Non hanno luogo deputato.
Si attaccano ai timpani come colla. Anche quando non vorresti sentire.
E la fronte suda perché sale la pressione del sangue. L'aria non entra più, neppure dal naso.
Gli occhi non si chiudono. Si stringono.
Ed è come se fosse silenzio. Gelido come stasera la strada bagnata qua fuori.
E non farà mai parte di noi.
E avremo sempre meno cose da dirci.

E qua siamo sul mare dove sfociano fiumi di parole.
E nel mare sfociano tutti i fiumi.
I fiumi per secoli sono stati canali
privilegiati di comunicazione tra i popoli.
Di incontro e di scontro.
Comunque di confronto.

Questa è democrazia. Altrimenti, non lo è.

Piove sul bagnato.
E sul bagnato si scivola e quando si cade non si cade mai dove si vorrebbe.





Monday, November 21, 2005

Il silenzio di Alessandro

Alessandro era un mio compagno di classe del biennio, al Liceo di questo stesso mio paese.
Era una mattina delle tante che ci hanno raccolto fra quelle quattro mura, seduti scomodamente ai banchi, adolescenti assonnati e insolenti. Adolescenti che non sapevano stare insieme, per lo più. Straordinariamente diversi l'uno dall'altro, tanto da sembrare, più che una classe, un campionario. Dispettosi e solitari, rigidi e vendicativi, forse soltanto adolescenti alla prova di sopravvivenza in un luogo ostile. Ci difendevamo così dalle debolezze di una trasformazione, esteriore e interiore. Eravamo brutti ed insicuri. Bambini che si allungavano nella foresta dei primi peli superflui. E ogni passo era un'esplorazione e tutto il resto era dimostrazione di forza e di coraggio, issando una bandiera mai bianca.
Ci chiamavano 'individualisti'.
Anche per questo, quella mattina è rimasta memorabile ed eccezionale.
Pochi giorni prima c'era stato il compito di Italiano e proprio quella mattina la professoressa aveva distribuito i risultati. Alessandro sul suo tema ci lesse non classificato. In altro contesto significa fuori dalla gara. Non qua.
La professoressa davanti alla cattedra fece spettacolo, più che nostro suo malgrado.
Nella massima espressione della sua ottusità e della sua frustrazione, credo, strappò il tema di Alessandro gettandolo nel cestino. Picco di zelo da educatrice e di idiozia.
Quello di Alessandro non era il giusto modo di scrivere un tema di Italiano. Mancava di punteggiatura, era illeggibile e cialtorne. Linguaggio troppo diretto e colloquiale, mancava di elaborazione.
Il suo giudizio invece mancava di illuminazione e sensibilità. E la classe insorse e il campionario divenne una classe. Tutti gli individualisti divennero Alessandro.
Perché sapevamo.
Sapevamo che due giorni prima del compito era morta la zia di Alessandro. Quella zia che una sera, durante una cena in famiglia, aveva annunciato di avere un cancro al seno e di rifiutare le indagini mediche per l'intervento che avrebbe potuto darle occasione di salvezza. «Per la vergogna, la troppa vergogna di sentirsi palpata da sconosciuti e di mostrare il seno nudo» disse la zia. «Piuttosto la morte».
Alessandro aveva raccontato tutto, di un fiato e senza punteggiatura. Così come se l'era sentito dire dalla zia, a tavola quella sera. Senza raffinare il linguaggio italiano del racconto.
E tante scuse all'Italiano. Alessandro senza filtri: aveva gettato olio bollente dalla finestra, fuori dal suo cuore che stava implodendo. Alessandro aveva sedici anni come tutti noi. Nessuna scusa per chi non ne aveva tenuto di conto. Nessuna scusa perché eravamo
adolescenti assonnati e insolenti, straordinariamente diversi l'uno dall'altro, dispettosi e solitari, rigidi e vendicativi, brutti ed insicuri. Per una mattina una classe unita. Sedicenni e non individualisti. E individualisti forse mai, davvero, nel senso adulto della parola. Diversi, fra di noi e dagli altri.

Anni dopo, Alessandro si è perso per strada. D'estate, sulla sua moto.
Quella mattina restò muto davanti al giudizio che la professoressa aveva scritto sul suo tema.

Senza parole.

Avrebbe voluto gridare. E quella mattina abbiamo gridato noi per lui. In coro.

Ho scritto un racconto che ho regalato ai miei compagni.
Perché restasse qualcosa di scritto.
Perché il tema di Alessandro finì e restò nel cestino.
La prima idea era di postarlo. Ma non lo farò.

Perché qua deve restare il silenzio di Alessandro.
Le sue parole erano su quel tema.

Le mie avranno altre occasioni.

Friday, November 18, 2005

Le parole dell'amica di Marcella

Marcella abitava accanto a casa mia. Lo scorso martedì si è trasferita al Cimitero di questo stesso mio paese. Marcella cercava la gente ogni giorno. Negli occhi grandi, scuri e acquosi si leggeva che non sarebbe stata adatta a stare da sola. Ma la solitudine è stata l'unica presenza costante nella sua vita. Un marito ed un compagno che l'hanno preceduta nel trasloco; Marcella li ha amati diversamente in diverse stagioni della sua vita. Nessun figlio. Il cane del nipote che abitava accanto a lei si faceva accarezzare e si aveva la sensazione che fosse lui il suo bambino. Marcella amava i cani e versava ogni anno un'offerta al Canile di questo stesso mio paese. E la faceva versare anche a me. Avrebbe amato anche il nipote, se il nipote avesse trovato il tempo per amarla.
Marcella cercava la gente ogni giorno. In estate stava sulla porta di casa e parlava con chi passava. Poi stava un mese in vacanza con due amiche e quando tornava era la fine dell'estate. In inverno suonava il campanello con qualche scusa e restava un'ora a parlare. Stringeva le labbra anche mentre parlava e muoveva la mascella in un moto involontario, di rammarico e di scusa. Perché temeva di disturbare. Quando iniziava a parlare aveva spesso la voce bassa e stonata di chi sta zitto da troppo tempo. E quando rideva sembrava che piangesse.
Marcella amava i ciclamini. Mia madre la mattina del giorno del funerale ne ha messi due sulla finestra, uno bianco e uno rosso. Perché Marcella e il corteo che la portava in chiesa ci passasse davanti.
Sono stata al suo funerale. La cerimonia mi era lontana come ogni cerimonia di questo o di altro genere. Ho guardato per un'ora la bara, ero lì per la persona che c'era dentro. Per l'ultima occasione di salutarla. Per rispetto della sofferenza. Per guardare la morte e prendere coscienza che accanto alla mia c'era una casa vuota.
Al funerale c'erano il nipote, i vicini, le due amiche e la parrucchiera dove ogni venerdì Marcella si faceva la messa in piega per andare in chiesa la domenica.
Quando siamo usciti dalla chiesa ho sentito una delle due amiche avvicinare la parrucchiera e dire:
«So che non è il momento più adatto, ma avrei bisogno di un appuntamento per domani. Devo fare la permanente.»
Me ne sono andata a casa.

Marcella. Quando penso ai tuoi occhi mi ricordo delle parole di un fado:
«L'allegria che dimostriamo non ci passa dagli occhi»
Ad occhi chiusi nessuno se ne accorgerà. Spero che tu sorrida per l'eternità. Lontano da questo stesso mio paese.

Friday, November 11, 2005

Le parole dell'uomo che si trascinava

Ho incontrato un uomo anziano e arrancante che strisciava i piedi accanto a quelli della moglie, sul marciapiede. E il marciapiede è una striscia sconnessa davanti al cinema. Il marciapiede ha posto a malapena per quattro piedi che si trascinano vicini, da anni che sembrano una vita. E forse lo sono. L'uomo si è rivolto alla moglie e ho sentito le sue parole. La voce era arrancante come ogni osso del suo esile corpo in movimento. Ma. Le parole erano sciolte, arrivavano da lontano e andavano oltre. Arrivavano dai suoi ricordi di giovinezza.
«Quel giorno io e Alfredo eravamo vicini. Come stasera, ma eravamo lontano da qui. Da un'altra parte, ma vicini come stasera.»
Alfredo. Un ciclista di altri tempi. Il CT della Nazionale di Ciclismo, fino a pochi anni fa.
E quest'uomo che oggi arranca, chissà cosa ci faceva vicino a Martini, da un'altra parte lontano da qui. Su strade polverose e sconnesse ben più di questo marciapiede. Ma sono sicura che era sciolto come le parole che ho sentito arrivare dai suoi ricordi. Fino ad abbracciare di significato la moglie, calde ed entusiaste di felicità. Di giovinezza inattesa, dopo anni che sembrano una vita. E se lo sono, è una vita meritata.

Carpe diem, ovunque tu stia arrancando da queste parti. Sei comunque un mio caro ricordo. E inconsapevolmente, una settimana fa, hai dato un senso al mio blog.

Sunday, November 06, 2005

Farfallette e barzellette

La vispa Teresa avea tra l'erbetta a volo sorpresa gentil farfalletta,
e tutta giuliva stringendola viva, gridava a distesa:

"L'ho presa! l'ho presa!"

A lei supplicando, l'afflitta gridò:
"Vivendo, volando, che male ti fo?
Tu, sì, mi fai male stringendomi l'ale! Deh! lasciami; anch'io son figlia di Dio".

Confusa, pentita,Teresa arrossì,dischiuse le dita e quella fuggì.

Questa è la short version di tale Luigi Sailer. Carlo Alberto Salustri. Trilussa (che qualche anno dopo la portò un po' per le lunghe dirigendola altrove).
La vispa Teresa era una principessina viziatissima di Casa Savoia.
Anche questa era la satira, nel 1917.

Non posso dire che in Italia non si possa fare più satira liberamente.
Non si può più dire neppure questo.

Friday, November 04, 2005

Parole, parole, parole

Le parole escono dalla bocca e sono aria. E nell'aria e con l'aria girano per strada. E per strade nel mondo. Il mondo grande, il pianeta, a guardarlo da lontano, mica ci si accorge che è avvolto di parole. Perché da lontano sembrano atmosfera, ma sono parole.
Il mondo piccolo si dice soffra di incomunicabilità. Forse perché le parole devono essere raccolte. Come farfalle nella rete. E questa è la rete. E questo sono i blog. E questo blog è qui con tutte le buone intenzioni di una tale Vispa Teresa.