Livingstone sale in soffitta
Ecco una giornata di pioggia. Lily salì verso i fili dell'immensa rete, insieme alla sua noia. Anche i fantasmi si stufano della pioggia e Lily cercava una storia che la rapisse e la portasse lontano da quel ticchettio fastidioso che anche sotto il cielo d'asfalto riusciva a nebulizzare l'aria del suo mondo come fosse una stanza da bagno dopo una doccia calda, senza il beneficio del calore. Per questo, Lily cominciò subito a leggere, perché le storie, si sa, riscaldano più di un caminetto acceso.
Le scale, che scendevano così ripide dalla soffitta da sembrare quasi il salto di una cascata amazzonica, arrivavano sull’ultimo piano abitato della grande casa dove stava, da sola, la nonna di Livingstone. Livingstone era un bambino gracile e molto curioso, aveva occhi scuri e vivacissimi e portava un paio di occhiali sempre abbassati sul naso, come fanno i grandi quando smettono di leggere, alzando la testa dal giornale, per guardare in faccia qualcuno che è appena entrato nella stanza. Livingstone amava osservare con attenzione tutto quello che gli accadeva intorno, anche quando quello che accadeva era fuori dalla finestra, a scuola, durante l’orario delle lezioni. Nonostante le frequenti distrazioni in classe, Livingstone aveva ottimi voti in tutte le materie, era rapidissimo nel fare i compiti e sembrava che avesse sempre qualcosa di più importante da fare.
E in effetti, qualcosa c’era che per Livingstone valeva quasi più di tutto. Più di un gelato al pistacchio da mangiare anche con la punta del naso. Più di un sasso che rimbalza ben quatto volte a pelo d’acqua sul laghetto nel parco. Quasi quanto giocare a palla con Patch, il grasso beagle della nonna. Precisamente quanto il bacio del papà, al ritorno dai suoi viaggi di lavoro. C’era un grande sogno che Livingstone teneva nel cuore e che avrebbe voluto raggiungere da grande, quello di diventare un esploratore e guardare le mummie in faccia senza avere paura; ecco che allora non sarebbe stato più un sogno, ma tutta la sua vita. Per questo, prima o poi, avrebbe dovuto trovare almeno il coraggio di salire in soffitta nonostante i divieti della nonna. La nonna diceva a Livingstone che lassù non ci doveva salire perché non c’era niente, che la soffitta era una stanza vuota e che c’era solo un gran freddo in inverno e un gran caldo in estate. Livingstone, però, non ci credeva, perché non esiste posto al mondo dove non c’è davvero niente. Anche nei deserti ci sono sabbia, sassi e scorpioni, oppure tante crepe sulla terra dura, che sembrano le rughe di una faccia che ha visto passare il cielo sulla sua testa per millenni. Poi, una volta la nonna si era tradita, aveva alzato la voce impaurita dicendo che nessuno ci saliva da prima che lei nascesse e che se lassù c’era qualcosa era qualcosa di molto cattivo, forse una strega o un mago aveva fatto della soffitta il luogo dei suoi esperimenti magici e che se lui, Livingstone, ci fosse salito e avesse aperto la porta non sarebbe più sceso sulle sue gambe, ma, forse, sulle sue zampe, se il maleficio non l’avesse addirittura imprigionato in quella stanza per sempre. Ora, Livingstone, da buon esploratore, a questa cosa ci pensava molto spesso. Quella della nonna non era stata una buona strategia, le sue parole avevano aperto uno spiraglio alla curiosità di un bambino che non aspettava altro. Un gelido pomeriggio invernale in cui dal cielo pioveva ghiaccio fine, la nonna, sotterrati naso e bocca sotto la sciarpa di lana lavorata a mano che le bloccava la posizione del collo più di quanto facevano gli anni sulle sue ossa, era dovuta uscire per una commissione, tutta incartata in un cappotto pesante, come fosse nel rigido contenitore di un pacco da spedire lontano.
Livingstone uscì poco dopo di lei sul pianerottolo da cui partivano le scale per la soffitta. Fatta la prima rampa, la luce cominciò a scarseggiare, la piccola finestra che restava alle spalle di chi saliva non poteva illuminare gli scalini più di tanto. All’improvviso, sull’intonaco grigio del muro apparve la coda di un drago, sinuosa e verdognola, con piccole e rade lance più scure che non promettevano niente di buono. Livingstone se ne accorse giusto in tempo, indietreggiò all’improvviso e cadde all’indietro, finendo seduto sul sedere, con i mocassini che gli saltavano via come se fossero gli unici a voler ancora salire le scale; fu una fortuna che Patch lo stesse seguendo, perché gli fece da cuscino per la testa e Livingstone non dovette giustificare nessun bernoccolo viola quando la nonna rientrò a casa. Quella sera l’esploratore si sentiva sconfitto sul nascere, forse, si diceva Livingstone, il suo destino sarebbe stato diverso e quello che era un sogno sarebbe rimasto tale per sempre; da grande avrebbe solo cercato perdite d’acqua indossando una comoda tuta da idraulico, oppure avrebbe appeso alla sedia la sua giacca tutte le mattine, prima di sedersi ad incollare francobolli e a distribuire timbri sulle buste di milioni di lettere, fino a diventare inutile, quando il mondo, in lungo e in largo, si sarebbe scritto solo per posta elettronica. Ma qualche mese dopo, la curiosità vinse sul timore dell’ignoto e l’esploratore ritrovò un po’ di coraggio; un giorno di primavera, non appena, dalla finestra che dava sulla strada, vide la nonna arrivare sul marciapiede opposto, con il passo un po’ affrettato dal vento che le spettinava i capelli fino a farli sembrare un fiocco di cotone, Livingstone uscì sul pianerottolo e si tolse i mocassini. Salì in silenzio le scale di legno, trattenendo anche il respiro e gonfiando le guance come fa un trombettista, perché il drago c’era sempre lì sul muro, ma al passaggio di Livingstone non si svegliò e mantenne la mostruosa coda immobile. Quando, però, Livingstone raggiunse l’ultimo scalino che portava alla porta della soffitta, comparve un serpente nero allungato su tutta l’asse di legno e le gambe dell’esploratore persero coraggio e acquistarono un’incredibile velocità per tornare indietro, saltando la pingue mole di Patch, che lo aspettava sul pianerottolo, come fosse un ostacolo sulla pista di un gara di atletica.
Dieci minuti dopo, Livingstone aveva calzato di nuovo i suoi mocassini e piangeva calde lacrime immaginando che da allora in poi avrebbe visto la faccia delle mummie soltanto da dietro il vetro di una teca nel Museo Egizio di Torino, o a Il Cairo in mezzo a uno sciame di turisti sgomitanti. Quella sera saltò la cena, la nonna portò un po’ di latte e biscotti in camera sua, ma Livingstone bevve solo il latte, fino all’ultima goccia. Anche dei biscotti non rimase neppure una briciola, ma fu Patch ad ingoiarli tutti.
Era l’ultimo giorno di scuola, negli zaini c’erano soltanto l’astuccio e il diario per annotare i compiti per le vacanze. Nel cortile dove si aprivano le grandi portefinestre delle classi, i compagni di Livingstone si rincorsero accaldati per gran parte della mattinata, mentre il piccolo esploratore sconfitto rimase a testa bassa, fissava i suoi mocassini con gli occhiali che gli spuntavano dal taschino del grembiule blu, immaginandosi nel ruolo di bidello che gli spettava come unica alternativa per il suo futuro; chissà se avrebbe saputo mantenere così lucide le mattonelle bianche e nere che disegnavano come una scacchiera il pavimento del corridoio, questo era ciò che Livingstone si stava chiedendo mentre svogliatamente si dirigeva verso la porta, ultimo ad uscire tra i compagni che l’avevano superato correndo veloci come se avessero le ali ai piedi. I suoi mocassini sembravano, invece, trascinarsi a fatica, come se della colla gli impedisse di avanzare, senza staccare i passi dal suolo, come faceva la nonna quando era molto stanca. Che cosa avrebbe fatto adesso di tutto quel tempo che gli si era liberato all’improvviso, si chiedeva ancora Livingstone, senza più il coraggio neppure di tentare di raggiungere la porta della soffitta; anche Patch non avrebbe potuto aiutarlo a far passare i lunghi giorni delle vacanze estive, quel beagle era troppo pigro per seguirlo in lunghe passeggiate.
Ma ecco che un giorno, finiti tutti i compiti, dopo aver già mangiato un gelato al pistacchio sporcandosi la punta del naso e aver fatto rimbalzare un sasso ben quatto volte a pelo dell’acqua sul laghetto nel parco, dopo anche aver già giocato a palla con Patch, Livingstone cominciò a ripensare al suo sogno, poiché il papà era ancora in viaggio di lavoro e i suoi baci erano lontani quanto lui.
La nonna era uscita in una nuvola profumata fatta di seta color pastello, a riempire qualche ora della leggerezza estiva che la inebriava da qualche giorno, facendole guadagnare un’inattesa nuova giovinezza; sarebbe stata lontana da casa a lungo, finché ci sarebbe stato sole in cielo, senza pensieri, perché sapeva che Livingstone quel giorno non sarebbe rimasto da solo più di tanto e avrebbe avuto la sua bella sorpresa d’inizio vacanze.
La nonna era fuori da poco, quando il piccolo esploratore si tolse ancora i mocassini, lasciandoli sul pianerottolo da cui partivano le scale per la soffitta, a buona guardia di Patch che non fece un passo in più per seguirlo.
Livingstone aveva pensato molto al drago e al serpente che lo avrebbero aspettato su per le scale, e si era detto, per trovare il coraggio di affrontarli, che sarebbe bastato immaginare che fossero altro da quello che sembravano. Dunque, Livingstone cominciò a salire e, arrivato all’inizio della seconda rampa di scale, provò a convincersi che quello che intravedeva sul muro non poteva essere davvero un drago. Sì, forse quella era solo una macchia verde di muffa! E la muffa, si sa, non fa male a nessuno. Poi, quando giunse sull’ultimo scalino, superò con un passo più ampio quel serpente nero che ora gli sembrava tanto una vecchia crepa del legno annerita dalla polvere e non temette neppure per un momento che quella crepa alzasse la testa per mordergli un tallone, perché le crepe, si sa, non mordono nessuno. Infine raggiunse la porta della soffitta e si fermò solo un attimo, un po’ stordito dall’emozione dell’impresa, meravigliato dal canto che gli sembrava di sentire e dal profumo di rose che mai avrebbe pensato di trovare lassù. Non si sa se vinse la curiosità di un bambino o il coraggio di un piccolo esploratore, ma Livingstone aprì la porta. Ecco, c'era una soffitta coperta di polvere fin dalle assi del pavimento. Se qualcuno ci fosse entrato, prima di lui, avrebbe lasciato altre orme oltre a quelle che lasciarono i suoi passi, ma poiché erano molti anni che nessuno ci entrava, quando la stanza si aprì agli occhi di Livingstone, sembrò che anche la polvere della soffitta lo stesse aspettando da secoli, come i tesori dei faraoni aspettano da millenni i loro esploratori. Là dentro niente cambiava da anni, se non la luce che entrava dalla piccola finestra posta sulla parete opposta alla porta. Di giorno, quando fuori c'era il sole, i raggi che entravano muovevano un piccolo cono costretto sopra il disegno di un tappeto. C’erano boccioli di rosa in attesa di sbocciare. Piccoli uccelli dal piumaggio color indaco aspettavano il calore per frullare le ali e liberarsi della polvere in una giostra di brevi voli. Questo accadeva sotto i raggi del sole che entravano dalla finestra. Questo era il segreto della soffitta. E per questo di giorno la soffitta profumava di rose. E per questo l'aria sembrava risuonare del canto di uccelli esotici. Forse anche per questo nessuno ci entrava da anni, perché tutto quello che era chiuso nella soffitta sembrava un maleficio. Invece era un prodigio. E quando il sole tramontava e dalla finestra entrava la luce della luna, questo ancora Livingstone non poteva saperlo, i boccioli si richiudevano e i piccoli uccelli tornavano immobili, con il capo sotto l'ala. L'indaco si spegneva nel nero della notte. Le rose prendevano il colore della polvere. Ma restava la pace nell'aria, la pace di un mondo che riposa. Livingstone passò in mezzo ai voli degli uccelli, facendo attenzione a non calpestare le rose, e si avvicinò alla finestra che dava sull’orizzonte della città. Forse quella che vedeva dalla finestra, laggiù in fondo, non era una lunga ciminiera nera, ma il suo papà che si era allungato sopra i tetti della città per salutarlo, sventolando un fazzoletto che sembrava una coda di fumo. E forse si può dire che nella soffitta accadde un nuovo prodigio, quando Livingstone udì Patch abbaiare dal fondo delle scale e una voce che lo chiamava che non era quella della nonna; era una voce che usciva dal mezzo di una barba scura, mentre due occhi azzurri brillavano come il mare colpito dal sole. Livingstone aveva ancora nel cuore un grande sogno che valeva quasi più tutto, ma ora sapeva che lo avrebbe raggiunto da grande. Un sogno che valeva precisamente quanto il bacio del papà, al ritorno dai suoi viaggi di lavoro. E per trovare il bacio, adesso doveva solo richiudere la porta della soffitta e scendere le scale.
Ora Lily calò come una lacrima di gioia e tornò sul suo prato. La noia non era più con lei.
Le scale, che scendevano così ripide dalla soffitta da sembrare quasi il salto di una cascata amazzonica, arrivavano sull’ultimo piano abitato della grande casa dove stava, da sola, la nonna di Livingstone. Livingstone era un bambino gracile e molto curioso, aveva occhi scuri e vivacissimi e portava un paio di occhiali sempre abbassati sul naso, come fanno i grandi quando smettono di leggere, alzando la testa dal giornale, per guardare in faccia qualcuno che è appena entrato nella stanza. Livingstone amava osservare con attenzione tutto quello che gli accadeva intorno, anche quando quello che accadeva era fuori dalla finestra, a scuola, durante l’orario delle lezioni. Nonostante le frequenti distrazioni in classe, Livingstone aveva ottimi voti in tutte le materie, era rapidissimo nel fare i compiti e sembrava che avesse sempre qualcosa di più importante da fare.
E in effetti, qualcosa c’era che per Livingstone valeva quasi più di tutto. Più di un gelato al pistacchio da mangiare anche con la punta del naso. Più di un sasso che rimbalza ben quatto volte a pelo d’acqua sul laghetto nel parco. Quasi quanto giocare a palla con Patch, il grasso beagle della nonna. Precisamente quanto il bacio del papà, al ritorno dai suoi viaggi di lavoro. C’era un grande sogno che Livingstone teneva nel cuore e che avrebbe voluto raggiungere da grande, quello di diventare un esploratore e guardare le mummie in faccia senza avere paura; ecco che allora non sarebbe stato più un sogno, ma tutta la sua vita. Per questo, prima o poi, avrebbe dovuto trovare almeno il coraggio di salire in soffitta nonostante i divieti della nonna. La nonna diceva a Livingstone che lassù non ci doveva salire perché non c’era niente, che la soffitta era una stanza vuota e che c’era solo un gran freddo in inverno e un gran caldo in estate. Livingstone, però, non ci credeva, perché non esiste posto al mondo dove non c’è davvero niente. Anche nei deserti ci sono sabbia, sassi e scorpioni, oppure tante crepe sulla terra dura, che sembrano le rughe di una faccia che ha visto passare il cielo sulla sua testa per millenni. Poi, una volta la nonna si era tradita, aveva alzato la voce impaurita dicendo che nessuno ci saliva da prima che lei nascesse e che se lassù c’era qualcosa era qualcosa di molto cattivo, forse una strega o un mago aveva fatto della soffitta il luogo dei suoi esperimenti magici e che se lui, Livingstone, ci fosse salito e avesse aperto la porta non sarebbe più sceso sulle sue gambe, ma, forse, sulle sue zampe, se il maleficio non l’avesse addirittura imprigionato in quella stanza per sempre. Ora, Livingstone, da buon esploratore, a questa cosa ci pensava molto spesso. Quella della nonna non era stata una buona strategia, le sue parole avevano aperto uno spiraglio alla curiosità di un bambino che non aspettava altro. Un gelido pomeriggio invernale in cui dal cielo pioveva ghiaccio fine, la nonna, sotterrati naso e bocca sotto la sciarpa di lana lavorata a mano che le bloccava la posizione del collo più di quanto facevano gli anni sulle sue ossa, era dovuta uscire per una commissione, tutta incartata in un cappotto pesante, come fosse nel rigido contenitore di un pacco da spedire lontano.
Livingstone uscì poco dopo di lei sul pianerottolo da cui partivano le scale per la soffitta. Fatta la prima rampa, la luce cominciò a scarseggiare, la piccola finestra che restava alle spalle di chi saliva non poteva illuminare gli scalini più di tanto. All’improvviso, sull’intonaco grigio del muro apparve la coda di un drago, sinuosa e verdognola, con piccole e rade lance più scure che non promettevano niente di buono. Livingstone se ne accorse giusto in tempo, indietreggiò all’improvviso e cadde all’indietro, finendo seduto sul sedere, con i mocassini che gli saltavano via come se fossero gli unici a voler ancora salire le scale; fu una fortuna che Patch lo stesse seguendo, perché gli fece da cuscino per la testa e Livingstone non dovette giustificare nessun bernoccolo viola quando la nonna rientrò a casa. Quella sera l’esploratore si sentiva sconfitto sul nascere, forse, si diceva Livingstone, il suo destino sarebbe stato diverso e quello che era un sogno sarebbe rimasto tale per sempre; da grande avrebbe solo cercato perdite d’acqua indossando una comoda tuta da idraulico, oppure avrebbe appeso alla sedia la sua giacca tutte le mattine, prima di sedersi ad incollare francobolli e a distribuire timbri sulle buste di milioni di lettere, fino a diventare inutile, quando il mondo, in lungo e in largo, si sarebbe scritto solo per posta elettronica. Ma qualche mese dopo, la curiosità vinse sul timore dell’ignoto e l’esploratore ritrovò un po’ di coraggio; un giorno di primavera, non appena, dalla finestra che dava sulla strada, vide la nonna arrivare sul marciapiede opposto, con il passo un po’ affrettato dal vento che le spettinava i capelli fino a farli sembrare un fiocco di cotone, Livingstone uscì sul pianerottolo e si tolse i mocassini. Salì in silenzio le scale di legno, trattenendo anche il respiro e gonfiando le guance come fa un trombettista, perché il drago c’era sempre lì sul muro, ma al passaggio di Livingstone non si svegliò e mantenne la mostruosa coda immobile. Quando, però, Livingstone raggiunse l’ultimo scalino che portava alla porta della soffitta, comparve un serpente nero allungato su tutta l’asse di legno e le gambe dell’esploratore persero coraggio e acquistarono un’incredibile velocità per tornare indietro, saltando la pingue mole di Patch, che lo aspettava sul pianerottolo, come fosse un ostacolo sulla pista di un gara di atletica.
Dieci minuti dopo, Livingstone aveva calzato di nuovo i suoi mocassini e piangeva calde lacrime immaginando che da allora in poi avrebbe visto la faccia delle mummie soltanto da dietro il vetro di una teca nel Museo Egizio di Torino, o a Il Cairo in mezzo a uno sciame di turisti sgomitanti. Quella sera saltò la cena, la nonna portò un po’ di latte e biscotti in camera sua, ma Livingstone bevve solo il latte, fino all’ultima goccia. Anche dei biscotti non rimase neppure una briciola, ma fu Patch ad ingoiarli tutti.
Era l’ultimo giorno di scuola, negli zaini c’erano soltanto l’astuccio e il diario per annotare i compiti per le vacanze. Nel cortile dove si aprivano le grandi portefinestre delle classi, i compagni di Livingstone si rincorsero accaldati per gran parte della mattinata, mentre il piccolo esploratore sconfitto rimase a testa bassa, fissava i suoi mocassini con gli occhiali che gli spuntavano dal taschino del grembiule blu, immaginandosi nel ruolo di bidello che gli spettava come unica alternativa per il suo futuro; chissà se avrebbe saputo mantenere così lucide le mattonelle bianche e nere che disegnavano come una scacchiera il pavimento del corridoio, questo era ciò che Livingstone si stava chiedendo mentre svogliatamente si dirigeva verso la porta, ultimo ad uscire tra i compagni che l’avevano superato correndo veloci come se avessero le ali ai piedi. I suoi mocassini sembravano, invece, trascinarsi a fatica, come se della colla gli impedisse di avanzare, senza staccare i passi dal suolo, come faceva la nonna quando era molto stanca. Che cosa avrebbe fatto adesso di tutto quel tempo che gli si era liberato all’improvviso, si chiedeva ancora Livingstone, senza più il coraggio neppure di tentare di raggiungere la porta della soffitta; anche Patch non avrebbe potuto aiutarlo a far passare i lunghi giorni delle vacanze estive, quel beagle era troppo pigro per seguirlo in lunghe passeggiate.
Ma ecco che un giorno, finiti tutti i compiti, dopo aver già mangiato un gelato al pistacchio sporcandosi la punta del naso e aver fatto rimbalzare un sasso ben quatto volte a pelo dell’acqua sul laghetto nel parco, dopo anche aver già giocato a palla con Patch, Livingstone cominciò a ripensare al suo sogno, poiché il papà era ancora in viaggio di lavoro e i suoi baci erano lontani quanto lui.
La nonna era uscita in una nuvola profumata fatta di seta color pastello, a riempire qualche ora della leggerezza estiva che la inebriava da qualche giorno, facendole guadagnare un’inattesa nuova giovinezza; sarebbe stata lontana da casa a lungo, finché ci sarebbe stato sole in cielo, senza pensieri, perché sapeva che Livingstone quel giorno non sarebbe rimasto da solo più di tanto e avrebbe avuto la sua bella sorpresa d’inizio vacanze.
La nonna era fuori da poco, quando il piccolo esploratore si tolse ancora i mocassini, lasciandoli sul pianerottolo da cui partivano le scale per la soffitta, a buona guardia di Patch che non fece un passo in più per seguirlo.
Livingstone aveva pensato molto al drago e al serpente che lo avrebbero aspettato su per le scale, e si era detto, per trovare il coraggio di affrontarli, che sarebbe bastato immaginare che fossero altro da quello che sembravano. Dunque, Livingstone cominciò a salire e, arrivato all’inizio della seconda rampa di scale, provò a convincersi che quello che intravedeva sul muro non poteva essere davvero un drago. Sì, forse quella era solo una macchia verde di muffa! E la muffa, si sa, non fa male a nessuno. Poi, quando giunse sull’ultimo scalino, superò con un passo più ampio quel serpente nero che ora gli sembrava tanto una vecchia crepa del legno annerita dalla polvere e non temette neppure per un momento che quella crepa alzasse la testa per mordergli un tallone, perché le crepe, si sa, non mordono nessuno. Infine raggiunse la porta della soffitta e si fermò solo un attimo, un po’ stordito dall’emozione dell’impresa, meravigliato dal canto che gli sembrava di sentire e dal profumo di rose che mai avrebbe pensato di trovare lassù. Non si sa se vinse la curiosità di un bambino o il coraggio di un piccolo esploratore, ma Livingstone aprì la porta. Ecco, c'era una soffitta coperta di polvere fin dalle assi del pavimento. Se qualcuno ci fosse entrato, prima di lui, avrebbe lasciato altre orme oltre a quelle che lasciarono i suoi passi, ma poiché erano molti anni che nessuno ci entrava, quando la stanza si aprì agli occhi di Livingstone, sembrò che anche la polvere della soffitta lo stesse aspettando da secoli, come i tesori dei faraoni aspettano da millenni i loro esploratori. Là dentro niente cambiava da anni, se non la luce che entrava dalla piccola finestra posta sulla parete opposta alla porta. Di giorno, quando fuori c'era il sole, i raggi che entravano muovevano un piccolo cono costretto sopra il disegno di un tappeto. C’erano boccioli di rosa in attesa di sbocciare. Piccoli uccelli dal piumaggio color indaco aspettavano il calore per frullare le ali e liberarsi della polvere in una giostra di brevi voli. Questo accadeva sotto i raggi del sole che entravano dalla finestra. Questo era il segreto della soffitta. E per questo di giorno la soffitta profumava di rose. E per questo l'aria sembrava risuonare del canto di uccelli esotici. Forse anche per questo nessuno ci entrava da anni, perché tutto quello che era chiuso nella soffitta sembrava un maleficio. Invece era un prodigio. E quando il sole tramontava e dalla finestra entrava la luce della luna, questo ancora Livingstone non poteva saperlo, i boccioli si richiudevano e i piccoli uccelli tornavano immobili, con il capo sotto l'ala. L'indaco si spegneva nel nero della notte. Le rose prendevano il colore della polvere. Ma restava la pace nell'aria, la pace di un mondo che riposa. Livingstone passò in mezzo ai voli degli uccelli, facendo attenzione a non calpestare le rose, e si avvicinò alla finestra che dava sull’orizzonte della città. Forse quella che vedeva dalla finestra, laggiù in fondo, non era una lunga ciminiera nera, ma il suo papà che si era allungato sopra i tetti della città per salutarlo, sventolando un fazzoletto che sembrava una coda di fumo. E forse si può dire che nella soffitta accadde un nuovo prodigio, quando Livingstone udì Patch abbaiare dal fondo delle scale e una voce che lo chiamava che non era quella della nonna; era una voce che usciva dal mezzo di una barba scura, mentre due occhi azzurri brillavano come il mare colpito dal sole. Livingstone aveva ancora nel cuore un grande sogno che valeva quasi più tutto, ma ora sapeva che lo avrebbe raggiunto da grande. Un sogno che valeva precisamente quanto il bacio del papà, al ritorno dai suoi viaggi di lavoro. E per trovare il bacio, adesso doveva solo richiudere la porta della soffitta e scendere le scale.
Ora Lily calò come una lacrima di gioia e tornò sul suo prato. La noia non era più con lei.